Una tarda primavera come tante... una classica uscita con il meteo incerto per finire in un guaio: un grosso guaio.
Fuori dalla mia portata.
Ingovernabile.
Quel giorno, mentre passeggiavo sul pianoro sapevo bene di aspettare un temporale... ma al suo posto si presentò una tempesta.
Una tempesta di quelle ciniche, di quelle ingorde, di quelle che mentre sbattono bombe d’acqua e grandine al suolo, continuano imperterrite a ricaricarsi con la propria energia: quella appena rovesciata con ferocia al suolo, quella che il terreno non riesce ad assorbire o che forse rifiuta ferito a causa di tanta prepotenza subita… o forse quella dettata dalle regole del dialogo segreto fra la terra e il cielo.
Così, senza via di scampo e senza tregua, fui costretto ad accettare una situazione troppo pericolosa e fuori dai miei limiti, in un turbinio di acqua e grandine... in mezzo ai fulmini… e con la terra che vibrava ad ogni tuono. Mi ritrovai completamente fradicio e terrorizzato, mentre impuntato sui piedi cercavo di non cadere, spinto da raffiche di venti che sembravano colpirti con intelligenza le gambe e il bacino, raffiche che ti sbattevano addosso per poi sgattaiolare e tornare velocemente indietro ancora più insidiose e dispettose... stavo respirando venti senza regole, bassi, paralleli al suolo, con improvvisi scarti e urlanti accelerazioni... nervosi e impulsivi, sembravano cercarti da ogni direzione, con la loro voce dal suono isterico. Ovunque girassi il mio corpo per offrirgli meno attrito, riuscivano sempre a girarmi intorno ottenendo una sorta di forzato “faccia a faccia”, mentre ormai col capo chino e lo sguardo abbassato, ero intento solo a non perdere la calma e a difendermi il viso e gli occhi, contro delle gocce di pioggia fredde, aguzze e perfide come i piccoli sassi lanciati con cattiveria quando si è bambini.... costretto… costretto a rimanere immobile con le gambe piegate in mezzo al caos per non diventare un parafulmine e obbligato... come fosse un castigo, obbligato a guardare i miei scarponi affondare lentamente, minuto dopo minuto, dentro a un nuovo grande acquitrino, che poco prima era un pianoro in primavera... nel Tempo... con le sue attese interminabili... “conta i secondi” dicevo a me stesso… i secondi fra un tuono e l’altro, nella speranza di sentire il temporale arrampicarsi su per i boschi per poi svalicare oltre le montagne intorno... ma era come se il mostro rimbalzasse indietro ad ogni tentativo… non mollava… non finiva mai… forse intrappolati insieme, in una sorta di grande catino naturale.
Così… fra fulmini, boati assordanti e la paura più cruda… tutto si allagò velocemente... e mentre nascevano torrentelli e rapide di fango, lì dove l’acqua cercava di scappare, la conducibilità elettrica del suolo divenne l’angoscia più grande e soprattutto un’incognita da brivido.
Aspettare...
Non c’era tempo fra la luce e il suono.
Aspettare...
Non c’era tempo per scappare.
Aspettare...
Non c’era niente che potessi fare.
Aspettare...
Ragionai sulla mia salvezza, prendendo atto che era in mano alla fortuna e negli alberi più alti ai margini del pianoro, questi ultimi effettivamente accolsero alcuni lampi:
non ci furono scoppi, non ci furono buchi fumanti al suolo e neanche scintille... e niente andò a fuoco come vorrebbero i registi dei film… ci furono solo interminabili minuti di estremo disagio, mentre lucido e pensieroso sulla mia vita e sui miei affetti, cercavo di essere la cosa più bassa, piccola e invisibile del pianoro.
Passai in questo modo una quarantina di minuti, quando approfittai di un momento di tregua e scappai velocissimo in direzione della macchina... svalicai con atterriti sguardi al cielo quei luoghi esposti che mi avevano fatto desistere dalla fuga immediata, mentre alle mie spalle sentivo ancora suoni cupi e brontolii provenire dalle parti del pianoro ormai nascosto e lontano… ero finalmente uscito dall’incubo... ma non mi sentivo rinato e felice come quando si supera una situazione difficile... io mi sentivo distrutto... fisicamente e mentalmente... ero vuoto… solo le gambe sapevano cosa fare... portandomi all’automobile.
Tornai a Roma ancora zuppo e scosso, cercai subito online una mappa con le fulminazioni in tempo reale, mostrava 21 fulmini caduti in un chilometro quadrato, uno ogni due minuti: ingrandendo le immagini satellitari vedevo chiaramente il cespuglio che avevo utilizzato come misero frangivento, ma anche il pallino giallo di quel fulmine... che si schiantò col suo schiocco e il suo bagliore sul “mio” pezzo di prato a pochi metri dai miei occhi: nel momento in cui persi la ragione gridando agli alberi e al cielo… nel momento in cui mi sentii abbandonato da Dio… senza accorgermi che stavamo visitando lo stesso pianoro... da una quarantina di minuti.
Francesco Fusillo